PALAZZO ESEDRA, circolo culturale Lanterna Magica

Esercizi

LABORATORIO DI SCRITTURA – Gennaio 2011

Per pubblicare un testo, invialo come commento – vedi in fondo a questa pagina. Tutti i racconti sono riportati nella prima versione scritta dai partecipanti al corso di “Introduzione al racconto” della Piccola Scuola di Scrittura Creativa, Padova. Durante il corso i testi vengono discussi e revisionati.

 

Esercizi sulla “descrizione” (ricordi).

Il giorno di Natale, di Maurizio

Il giorno di Natale era un giorno speciale proprio perché non lo era come per tutti o per lo meno quelli che abitavano in quel piccolo paesino di montagna dove ero nato e stavo vivendo i miei primi dieci anni. A casa sentivo dire ” non è la nostra posizione”…”noi siamo diversi….”; di fatto ogni mio venticinque dicembre era a parer degli altri un giorno come un altro ma per me era speciale per il semplice fatto che mi veniva concessa più liberta che in qualsiasi altro momento.

Cosi amavo in quell’occasione partire per il forte dalla cui torre si poteva godere di un panorama di tutta la vallata che mi dava ogni volta grande gioia e serenità.

Solitamente partivo verso le dodici del mattino. Tutto era guidato da una finzione: “mamma vado a pattinare durante l’orario centrale …sai che mi piace quando non c’e’ nessuno…”. Dovevo stare attento a non dimenticare la giacca a vento perché li su al forte spesso tirava un vento che ti ghiacciava e non solo le orecchie. Nelle larghe tasche laterali dei pantaloni dovevo nascondere bene due pezzi di pane e un taglio di mortadella che avevo accuratamente nascosto dietro il latte due giorni prima.

Chiudendo dietro di me la porta di casa mi fermavo un attimo ad ispirare forte forte l’aria fredda e, trattenendola, ad occhi chiusi immaginare di volare velocissimo verso il forte. Era un bel momento, era l’inizio di una piccola avventura, era la mia avventura.

Due incroci, via delle mandorle, parco, casa dei sette nani e via verso il prato che presto lasciava spazio al bosco. Trovavo sempre divertente riconoscere le cose che sotto la spessa coltre di neve, adagiatasi silenziosa e paziente per tutta la notte, giocavano a nascondersi in un susseguirsi di forme rotonde e silenziose.

La carrareccia che portava al forte era ricoperta di neve immacolata e non c’era mai anima viva.

Un crepitio rassicurante sotto le mie scarpe accompagnava il mio cammino a tratti spedito e a tratti lento nell’indugiare all’ascolto e alla scoperta di caprioli che in quel periodo scendevano anche in tarda mattinata in cerca di cibo. Amavo quei boschi e ogni albero era un compagno che accarezzavo graffiandomi i palmi delle mani e cercando lo spunto di resina che mi avrebbe dato l’immortalità – così diceva Mario il vecchio del Bar Dorigo – ; loro erano li sempre ogni giorno dell’anno indistintamente, l’un con l’altro alla stessa distanza se non quando qualcuno di loro prima di andarsene si appoggiava ad un altro dopo una impetuosa litigata con il vento e la pioggia.

Dopo solo mezz’ora si scorgeva la forcella che anticipava di pochi minuti l’arrivo all’entrata del forte. Era oramai l’una e tutto l’umano taceva rinchiuso in ogni luogo a festeggiare mentre li fuori in quella pace io sentivo che veniva dato un grande dono: una riconciliazione intima e maestosa con la Natura. Salivo i pochi gradini diroccati di un camino di entrata che superava il ponte levatoio oramai inagibile. Ecco, due passi ed ero sulla torre che in estate mostrava tutta la trasformazione subita dal tempo essendosi riempita di terra e il cui muro di cinta era meravigliosamente ricoperto da lunghi steli d’era che si accarezzavano l’un con l’atro sospinti dal vento quasi sempre forte e scostante.

Con molta attenzione prendevo posto su una piccola pietra piatta che facilmente si riconosceva sotto la poca neve che, a dispetto del vento, riusciva a rimanerci sopra. Ammiravo da quel punto, a precipizio sul lago, queste montagne che sicuramente non erano tra le più belle nelle Alpi ma erano quelle viste, studiate ogni giorno dalla finestra della cameretta sin da quando ero piccolo. Era un senso di appartenenza che mi rapiva. La terra, i luoghi natii cantati da ogni poeta, narrati e ammessi nella loro atavica attrazione erano li di fronte a me e non potevo negare queste forze come invece avrebbe voluto mio padre, uomo senza terra e radici.

Il vento con la complicità del freddo intenso gelavano le mie estremità e ogni centimetro del mio viso in una complessiva sensazione di tempo infinito, ero spinto, per non soffrire, ad allontanare quelle sensazioni negative concentrandomi sul calore e quiete che potevo così trovare dentro il mio petto. Il risultato era una mente libera e una indescrivibile simbiosi con la Natura.

Mangiai con gusto il mio pane mordendo alternativamente il pezzo di mortadella. Sapori semplici mai disprezzati. Dopo una ventina di minuti mi avviai sulla strada del ritorno comunque pronto a condividere le mie sensazioni e i miei sentimenti con chiunque avesse voluto.

La maestra più di qualche volta chiamò i miei genitori per riferire con qualche preoccupazione gli oggetti dei mie disegni, sempre invariati: uomo solo con impermeabile, montagne e infinità di alberi. Da quando ci trasferimmo in grandi città non ci fu più una maestra che chiamava ma oramai la vita mi aveva giustamente cambiato e al contatto con la Natura si era aggiunto il contatto con l’uomo. Tuttavia quel contatto con la Natura e con me stesso è un aspetto tuttora importate che coltivavo in un giorno a mio modo speciale.

Un ricordo, di Federico:

Quel blu profondo è ciò che senza alcun dubbio vive più nella memoria. Grandissimo, quasi infinito, pacifico e mai fermo. Non eravamo tanto noi ad osservare lui quanto lui a tenerci d’occhio, come fa un nonno anziano, la sera, mentre comodo sulla sedia volge qualche sguardo benevolo ai nipoti che si rincorrono in salotto. Un blu che, nei giorni di vento, si picchiettava di cangianti granelli di polvere bianca. Cavalloni, li chiamavano, e la mente di noi bambini quasi si stupiva nell’immaginarsi destrieri di candida spuma che emergevano dall’acqua, nitrivano con rombo di tuono, e poi vi ritornavano, veloci come ne erano giunti. Ma non era un deserto di azzurro. Lontane, piccole barchette di cui a stento coglievamo i tratti portavano spesso i pescatori al largo, lasciando bianche scie che le onde lentamente confondevano e sbiadivano, come tratti di gesso su un marciapiede lavato dalla pioggia.

Lontano, la distesa blu baciava il tetto azzurro, sereno, immacolato e riverberante di luce. Vicino, invece, si nascondeva tra gli alberi e le case che s’innalzavano davanti e sotto la nostra. La spiaggia la immaginavamo soltanto. Dietro di noi, infatti, l’alto monte dai fianchi aspri, cui si aggrappavano pochi arbusti di un verde stinto, digradava poi lentamente fino al mare: le case si elevavano sul suo fianco, una sotto l’altra, così che il tetto dell’una fiancheggiava le fondamenta dell’altra. Dalla più alta, la nostra, al livello della strada, alla più bassa, molto più in giù, quasi dove le onde inciampavano sugli scogli. In tutte una grande terrazza si apriva verso il mare, creando come una ciclopica scalinata, modellata per piedi smisurati. Tra una e l’altra, a diversi livelli, molti vecchi alberi dai fusti nodosi aprivano le loro chiome, riparo e rifugio per decine di cicale. La loro musica ritmica si fondeva al calore del pomeriggio, un tutt’uno che la mente ora più non distingue. Ora più forte, ora più lieve, ogni voce si innalzava prima timidamente, in un lento assolo, per unirsi poi alle altre, in coro o in risposta, accompagnandoci sempre, fino al calare del sole dietro la montagna alle nostre spalle.

La mattina la luce era splendente nella terrazza, riflettendosi sulle mattonelle d’avorio venato di turchese. Ma genitori e zii restavano nella grande sala, tra le cui ampie finestre scivolava l’aria giunta dal mare. Nella cucina e nel cortile posteriore, coperto da un soffitto di canne, molti odori si rincorrevano, mentre i nonni già si indaffaravano a preparare arancine, caponate, spaghetti o cannoli. La terrazza era piuttosto per la quiete del pomeriggio, quando l’ombra vi si distendeva. Allora, dopo il riposo delle ore più calde, sul tavolo si sarebbero mescolate le carte, sulle sedie mani abili avrebbero trasformato gomitoli in maglie ed abiti, mentre discussioni leggere avrebbero riempito le ore prima e dopo la cena.

La mattina invece era per il mare. Una lunga scala intagliata nella roccia correva, diritta, sulla destra della nostra grande casa, dalla strada fin giù al mare. Noi ne vedevamo solo l’inizio, prima che si perdesse tra i rami. Irregolare, con gradini raccolti in piccoli gruppi, la percorrevamo ogni giorno, scendendo il declivio come a singhiozzo, per raggiungere la spiaggia. Scarpe di gomma, rosse od azzurre, proteggevano i piedi impazienti dalla pietra rovente. Li contavamo, a volte, ma ogni volta il risultato era differente, ci chiediamo ancora quanti fossero, quei gradini.

Ci accorgevamo di essere quasi alla fine perché la scala attraversava zone d’ombre più ampie, dove il fresco della mattina persisteva più a lungo. A quel punto veniva l’odore: la brezza risaliva la scala, accogliendoci con saluti carichi di salsedine e, talvolta, di leggerissime gocce d’acqua. Subito dopo, ecco il respiro regolare e rombante del mare crescere, coprendo i canti delle cicale e le nostre voci, e la pelle pareva quasi rabbrividire al pensiero dell’acqua fredda ormai vicina. Poi, alla fine della scala, il cancello, sempre spalancato, quasi una soglia tra l’ombra in cui percorrevamo gli ultimi scalini ed il sole scintillante sulla spiaggia. Il riverbero faceva socchiudere gli occhi, mentre sotto i nostri piedi decine di piccoli sassolini modellavano le suole di gomma. Camminando, qualcuno si infilava dentro le scarpe di gomma, e bisognava sedersi su qualche roccia, velocemente, per levarlo. Salivamo infine una piccola china, oltre la quale non restavano che pochi metri. Lasciati, o lanciati, gli asciugamani colorati sulla spiaggia, correvamo verso il vento, verso il sole e verso l’acqua. Chiara e limpida, lasciava scorgere il fondale, dapprima basso e chiaro, poi coperto da scogli consunti, vestiti di alghe che parevano accarezzarti al tocco. Ma oltre, più lontano, oltre i motoscafi che sfrecciavano all’orizzonte, annunciati dal rombo del motore e dal sordo tonfo regolare della chiglia sul pelo dell’acqua, ecco ancora il blu. Quel blu profondo. Ciò che senza alcun dubbio vive più nella memoria.

Primo ottobre, di Giorgia:

 Sono trascorsi molti anni, ma l’immagine del mio primo giorno di scuola è nitida nella memoria. La mia timidezza mi obbligava a rimanere incollata alla mano di mio padre. Non volevo saperne di lasciar andare quell’ancora così rassicurante. Anche Stefania era impaurita, ma i nostri sguardi si incrociarono complici. Era l’inizio di un’amicizia che dura da oltre trent’anni.

La scuola, un istituto privato esclusivamente femminile e gestito da religiose, infondeva severità e disciplina. Mura spoglie e bianche prive di qualsiasi cosa non avesse significati sacri. E per cominciare, ci aspettavano le preghiere e i canti prima delle lezioni – abitudine che ci avrebbe accompagnato ogni giorno per i prossimi cinque anni.

Vuoi essere la mia compagna di banco?” Non avevo alcun dubbio. Per nessun motivo al mondo mi sarei separata da Stefania! E così sarebbe stato per tutte le scuole dell’obbligo.

L’aula era piuttosto spaziosa, lettere sconosciute appese ai muri, numeri, disegni di animali, alberi, frutta. La nostra maestra, madre Guerrina – ma che nome è, pensai – raggiunse zoppicando la cattedra. Gli occhiali dalla montatura di metallo nascondevano chiari occhi simpatici e le labbra sottili, che a prima vista potevano sembrare severe, si aprivano in un rassicurante sorriso. Dal velo scuro scappava qualche ciuffo di capelli neri.

“Ma è zoppa?” chiese qualcuno con l’ingenua crudeltà tipica dei bambini. Tutte avremmo voluto sbirciare sotto le nere e lunghe sottane per curiosare se ci fosse una gamba di legno. D’altronde le favole che la mamma ci leggeva la sera prima di addormentarci erano piene zeppe di pirati con uncini e bende nere agli occhi, no? Ma una suora con una gamba di legno non si era mai vista…

Durante le due ore successive nessuna di noi si azzardò a fiatare. Si scrive esclusivamente con la penna stilografica, senza sbavature. Ogni giorno sul quaderno va scritta la data in numeri romani. I quaderni vanno tenuti in ordine, senza pieghe e rilegati con una copertina.” Ma se sbagliavamo, venivamo punite a bacchettate sulle dita o ci mettevano in ginocchio sui fagioli dietro la lavagna?

All’improvviso il suono della campanella mi destò da quell’incubo. Ricreazione! Il cortile, delimitato da un portico su un lato, si apriva su uno spiazzo di ghiaia che raccoglieva dondoli, scivoli, altalene e persino una pista di pattinaggio!

Ragazze! Oggi si gioca a Guerra Mondiale.” Madre Guerrina ci divise in due squadre, spiegò rapidamente le regole e poi per dimostrarci meglio lo svolgersi del gioco, tirò su le maniche della tonaca ed entrò in campo.

Nonostante l’andatura claudicante, si muoveva con agilità. La sua velocità nell’evitare che la palla la colpisse ci lasciò letteralmente a bocca aperta. Correva da un lato all’altro del campo di gioco ondeggiando vesti e velo a destra e sinistra quasi fosse il pendolo di un orologio a cucù.

Il giardino era immenso. Un breve sentiero che in primavera si riempiva di margherite, portava ad una piccola grotta che accoglieva una madonnina di gesso. Ai suoi piedi mazzolini di fiori di ogni genere.

Ripercorrere oggi quei luoghi mi trasporta lontano nel tempo. Chiudo gli occhi e sento i profumi della cucina quando madre Rina preparava il pranzo: oggi pasta al sugo. Ascolto le voci allegre delle mie compagne inseguirsi tra le rose del giardino e mi ritrovo seduta sul bordo dello stagno a cercare sotto le larghe foglie delle ninfee i pesci rossi che lo abitano. Chissà se sono gli stessi di allora…

Esercizi sul “punto di vista”: prosopopea.

Fuori, di Cristina Zecchin:

E’ il limite ultimo della casa, ciò che divide il dentro dal fuori. E’ una porta, un cancello, a volte un muro bianco col cartello “WELCOME” e ti senti già dentro, sorridi, aspetti, ti volti a destra, a sinistra… attendi. Oppure leggi “ATTENTI AL CANE”, allora sei tu a metterti sul chi va là: da dentro si scaraventa verso di te uno di quei terribili york shire nani che saltellano ad altezza caviglia fracassandoti i timpani, ma si scaglia sulla rete, tu sei fuori ancora, ti giri a destra, a sinistra, ti avvicini al vetrino, dietro cui si nasconde l’occhio che ti farà riconoscere a chi sta dentro… e attendi.
Perché non suoni? Come sottoposto ad una lente d’ingrandimento il tuo naso diventa una pera, il tuo sguardo è in bianco e nero, rumori di radio interferenze fanno sembrare il tutto una scena da film anni ‘50, di quelli prima del digitale, di quelli che quando andavano male facevano le strisce sul video e non i quadretti scomposti tipo un Tetris andato a male. Comunque questo non è un film, è la vita e non siamo al cinema, ma siamo fuori e fa pure freddo.
Ma perché caspita non suoni?
Con un gesto in cui sembri annusare la sciarpa, ti aggiusti a tartaruga dentro il giubbotto. Strizzi gli occhi per l’aria che ti sposta appena il ciuffo col suo gelo. Soffi nelle mani e sembri ricordare di avere un cellulare.
Ma perché non suoni?
Chiami, anzi uno squillo poi ti affretti a chiudere. Il tuo volto scompare per un attimo dalla piccola scena di una lente posta su un muro per proteggere il dentro di una casa dal fuori del mondo.
Quando il cancello finalmente si apre tu non ci sei più. Per un attimo solo il gelo si materializza davanti allo schermo e Sara, che raccoglie da terra una busta, la apre, la legge, sorride, si volta e suona: “Mamma è passato papà”.
Spiaccica il biglietto sul vetro e si legge appena: 22 agosto, concerto di Manu Ciao a Genova.

 Di Alessandra

Sono piccolo e nero, certo, ma ho una certa eleganza grazie al design longilineo. La maggior parte del tempo me ne sto tranquillamente adagiato sul tavolino del salotto; mantengo le energie pronte per la sera. Eh si, perché è proprio la sera il momento in cui le mie qualità e il mio alto potenziale vengono maggiormente apprezzati. Mi si contende. Letteralmente. I vivi litigano per me, per poter mettere le mani sui miei pulsanti. Vengo toccato e ritoccato, salvo poi finire schiacciato sotto il peso dei loro corpi abbandonati, caduti tra le braccia di Morfeo poco dopo essersi aggiudicati l’esclusiva dei miei servigi. Spesso finisco sepolto tra i cuscini, o in terra, abbandonato. Ma tornano sempre a cercarmi. Sempre. E sempre tornano a posarmi sul mio tavolino, quasi dimentichi di me, fino all’arrivo di una nuova sera, e di una nuova zuffa.

Il canto, di Chiara:

Me ne sto distesa qui dentro, sotto una coperta morbida. Aspetto il momento in cui potrò cantare. Sono nata per questo. La mia bocca è come lo stelo di una pianta, lunga e dritta parte dal mio corpo e si protende davanti a me, rigida, in attesa di quel fiore che sarà la mia prima nota. Ed io aspetto, paziente, che nasca.

Attorno a me, il buio. È un buio che ha un particolare odore: tabacco, inchiostro, carta, e legno. È un odore buono. Un odore in cui accoccolarsi e dormire, aspettando il grande risveglio.

Ogni tanto, delle voci. Non qui, ma fuori, all’esterno. Ci sono le note rauche ed autoritarie di un uomo. L’uomo che mi ha messa in queto cassetto: mezza età, ben vestito. Il suo tabacco dorme qui, accanto a me. Siamo i suoi segreti.

E poi c’è lei. Non l’ho mai vista, conosco solo la sua voce: non molto alta, morbida. Se dovesse avere un colore, sarebbe dorata, come un flacone misterioso in cui è custodita qualche esotica essenza. Se quella voce cantasse, le sue note sarebbero come pepite d’oro portate alla luce dal buio di una miniera. Brillerebbero nel buio, inestimabili.

E la mia voce? Non l’ho mai udita. Mi chiedo che colore avrà, quale sapore, la mia voce. Se potessi sognare, vorrei che fosse d’oro grezzo, come quella di lei. Che fosse dolcemente amara, come liquore in una bottiglia di pregio, tenuta in serbo per le grandi occasioni.

Aspetto, aspetto qui, fingendo di dormire, impaziente di saperlo. Una sera, l’ho capito. Avrei cantato, era il momento. Non saprei dire perché ne fossi così certa. Forse l’improvviso irrompere delle voci nella stanza. Tesa come la corda di un arco, quella di lui lanciava acute frecce sonore che facevano vibrare i muri e le cose, ferendo il silenzio della notte. La voce di lei era come un panno di velluto strappato. Piegata, rotta, si trascinava su note lugubri e piccoli gemiti acuti, come schegge di vetro.

Ma poi, improvvisamente, si tese e si gonfiò come una vela in una tempesta. Come una bestia ferita, ruggiva e sibilava per difendersi dagli attacchi della feroce voce maschile, che ormai era un’arma impazzita, caricata per uccidere.

E fu allora che venne il mio momento. Il cassetto si aprì, e lui mi afferrò. Ma non come la prima volta, con delicata tenerezza, ma bruscamente. La sua mano stringeva convulsamente il mio corpo, potevo sentirne il sudore e i tremiti di rabbia spargersi lungo la mia schiena. Io ero lì, come un uccello intrappolato, la mia bocca dritta puntata contro una donna in abito elegante. I suoi occhi erano vitrei. Il bel volto, circondato da scuri capelli scarmigliati, era deformato in una smorfia di terrore. Le braccia erano rigide, protese in avanti: una statua impaurita.

 Dopo un lungo minuto, in cui potevo udire distintamente il pulsare delle dita dell’uomo attorno a me, dalla bocca rossa e carnosa di lei uscì un flebile suono di supplica. Il mio corpo fu stretto, si contrasse. Cantai. Una nota sola. Un battito. Un colpo. Un’esplosione. Era quella la mia voce.

La donna davanti a me si accasciò, si sgonfiò come un prezioso sacco vuoto. E non si mosse più. La mano dell’uomo rimase per qualche secondo ancora stretta attorno al mio corpo fumante per lo sforzo. Come per trattenere un istante già da tempo fuggito. Come per fermare un’azione ormai commessa. E quindi, lentamente, il suo corpo perse ogni forza, e mi lasciò andare. Caddi a terra. La mia nota, il mio canto di morte, dietro di sé lasciò il silenzio.

Di Maurizio:

(1)

Quanto tempo è passato da quando quegli uomini con quella strana piuma in testa si alternavano nel salirmi addosso, fermandosi poi anche per ore in prossimità della mia cima. Ammiravano il paesaggio, così sembrava, fatto di vallate circondate da severe montagne. Quei lunghi chiodi oramai arrugginiti mi avevano fatto soffrire ma ben presto erano diventati parte di me e delle mia storia e mi piaceva pensare che erano serviti per far condividere quei panorami.

Tuttavia non mi è stato mai chiaro come mai da quel giorno in cui tanti miei vicini saltano in aria, feriti e umiliati, sotto quei misteriosi sibili provenienti dal cielo, non vidi più quegli uomini piumati. Per molto tempo sono rimasto solo assistendo alle trasformazioni di tutto ciò che mi circondava. Cambiavano prevalentemente i colori che oramai erano divenuti il grigio e il nero in forma di lunghe lingue li giù nelle vallate e di ampi squarci desolati in mezzo alle montagne..

Finalmente, dopo lungo tempo, qualcuno si accorse della mia presenza e forse intuì la mia storia. Così ogni tanto dei bambini venivano ad arrampicarsi, riproponendo talvolta i comportamenti e le azioni, frutto evidentemente di racconti e storie, degli uomini piumati.

Purtroppo anche questi giochi e questa allegra compagnia svanì presto nel silenzio più assoluto.  Oggi vedo sotto di me carte, lattine, bottiglie dimenticate forse. Ci sono talvolta anche siringhe che chissà quale malattia debbano curare quassù in questa pace avvolta nella loro Natura. Ma ogni tanto in un bellissimo giorno di primavera arrivano a frotte persone di ogni età che con sacchetto in una mano e bastone nell’altra si preoccupano di raccogliere tutto cio’ che non fa parte di questa Natura. Dal mio punto di vista c’e’ ancora da sperare.

(2)  

Ecco qui la sezione “incontri” su questo sgualcito giornale. “cinquantenne, distinto, serio cerca relazione per sereno progetto di vita….” – cerchiato e sottolineato – Uhhh leggi questo….”Sono qui, come tu mi vuoi, per soddisfare ogni tuo desiderio, chiama, non perdere il treno…”, chissà che programmi, promesse ma soprattutto dove porta questo treno?

Eccolo arriva, lungo come una autostrada, bianco ai bordi e pieno di numeri e codici indecifrabili. Arance, banane, kiwi, latte, miele, pomodori, farina di kamut, pane azzimo, yogurt magro….beh una signora salutistica lista della spesa….ma ..aspetta un po’….leggi leggi in fondo…nutella, birra, coca cola, bacardi, sigarette, veleno per farfalle, patatine e tre sacchetti di plastica!? Che tristezza! Si discolpano con qualche piccolo comportamento virtuoso ma poi…

Ohhh guarda, anzi senti questo profumo delicatissimo di viole, una pergamena che non se ne vedevano da tempo….una lettera …”Cara Luisa, da quando te ne sei andata per quel lavoro a Barcellona, ho potuto riflettere su quello che sarebbe stato la nostra vita insieme e penso che sia arrivato il momento di costruirla anche a costo di sacrifici e forse qualche rischio. Sto arrivando! Tuo per sempre Alberto.” Peccato che questa lettera non sia partita; è bella, diretta, saggia ma appassionata. No daiii, torna indietro, si si si se la sta riprendendo e incredibile ne lascia un’altra dove leggo “Cara Luisa, la mia solitudine mi ha portato a rifiutare questo tuo distacco e non riesco a vedere se non un tuo profondo egoismo nell’aver accettato quell’incarico in un paese cosi lontano. Sto cercando di dimenticarti e ti prego di aiutarmi in questo non chiamandomi più. Saluti Alberto”.

Ritengo di essere fortunato perché il mio punto di vista mi permette di vedere cio’ che le persone buttano ma al contempo di immaginare cosa hanno conservato o cosa stanno per fare permettendomi così di coltivare la speranza per un mondo migliore.

 Prospettiva, di Christian:

Nellʼimmobilità si notano cose che normalmente non riusciresti a vedere. Ti accorgi di tutto. Impari lʼesatta collocazione delle cose che ti stanno attorno e se chi frequenta la stanza sposta qualcosa te ne rendi subito conto. Lʼimmobilità è una sicurezza non da poco alla quale ci si abitua e dalla quale ci si fa cullare troppo volentieri, tanto che ogni spostamento può generare una lacerazione emotiva insopportabile, ma anchʼessa soggetta ad abitudine.

Odio quando sposta i mobili, e odio quando sposta me, se non per buoni motivi: se devo andar a prendere la polvere da qualche altra parte tanto vale che mi lasci dove sono, no? La cosa più brutta sarà però essere dato via. A volte vorrei essere come la polvere che ormai mi sta sopra, così leggera e volatile. Quella non pensa a nulla e soprattutto se ne frega se la cacci: torna e basta. Nessuno odia veramente la polvere perché è un dato di fatto: esiste e non puoi farci nulla. Spolverare è un protocollo acquisito. Non ci stai male.

Amare una certa sostanza, un certo corpo, è più facile a parole che a fatti: “è il mio amore, il mio preferito” e intanto lo metti da parte. Guarda quelle scarpe, quelle si che stanno bene! Con la suola in cuoio ormai consumata ma ben tenuta, sempre lucide e con le stringhe leggermente logore. Più passa il tempo e più sono felici: sorridono di gusto con quelle pieghe sulla pelle segnata da lunghe passeggiate. Eʼ curioso come proprio nel momento di massimo sforzo, piegandosi al passo, esse ridano felici. Che glʼimporta a quelle se un giorno finiranno in cantina! Avranno fatto tutta la strada possibile.

Di Martina P.:

Tamburella nervosamente con le dita sul tavolo… si mordicchia un po’ le unghie, scuote la testa e torna a perdersi nell’intrico dei suoi pensieri. Lo fa spesso quando ci troviamo uno di fronte all’altra, quando si decide a raccontarmi, a raccontarsi. Non posso insistere con lei, conosco i suoi tempi. Allora aspetto, la osservo con calma… e comincia, prima una o due parole, poi un fiume in piena. Sta bene così, sa che di me può fidarsi. Me l’ha anche detto un giorno: “Sei il custode dei miei segreti”. E, infatti, li conservo tutti qui nel mio cuore.

Ne abbiamo passate tante noi due, splendenti giornate di sole, tremende burrasche. Mi piace farla ridere, scoppi fragorosi fino a togliere il fiato. Adoro quando cantiamo assieme, la musica è la nostra passione. Ma anche se da solo sperimento l’elettronica, non mi va di proporgliela… so che non le piace. Altre volte la sorprendo a guardarmi e asciugarsi furtiva una lacrima a bordo ciglia. Vuol fare la dura, ma si commuove con niente.

Abbiamo anche pensato di separarci a un certo punto. “Questa storia non funziona più…Tu sei vecchio dentro!” mi urlava. E invece siamo ancora qui. Ogni sera mi addormento tranquillo. So che fin che mi sta accanto, si accenderà sempre una nuova giornata.

Buonanotte, giorno, di Federico:

 Posso dirti che è un rumore di passi, veloci, ad annunciarmi l’inizio della giornata. Le scarpe dalla suola di gomma smuovono piccoli sassi, lasciando deboli echi che si inseguono a ritmo. Qualche volta una figura solitaria, più spesso una coppia. Si avvicinano, armati di guanti, sciarpa e berretto, per affrontare la gelida umidità, mi passano accanto, e poi via di nuovo. Non mi degnano di uno sguardo. Maleducati? No, forse ingrati, ma non bisogna vedere tutto sotto una cattiva luce. Non saranno gli unici della mattina. C’è chi ha la musica alle orecchie, chi guarda il terreno correre via sotto i propri piedi e chi osserva il ponte sul canale delinearsi lentamente nella nebbia. Qualcuno parla perfino. A volte mi piace pensare che parli proprio a me, ma chissà.

Oggi è una bella giornata. Il sole lavora con alacrità per scavare fori nella nebbia. Prima apre dei pertugi, poi allarga dei buchi più grandi, ed infine dissolve quanto resta della lacerata muraglia di nebbia. I frammenti di ghiaccio sul mio capo abbandonano il loro manto bianco, colando lungo i miei fianchi fino all’erba, con un brivido gelido che mi percorre da capo a piedi. La luce ora splende, limpida. La invidio, così calda e radiosa.

L’esercito della fretta lascia il posto a piccoli stormi di zaini in spalle. Si muovono a gruppetti, libri aperti in mano, raccontando, ripetendo, domandando, programmando. Anche loro mi notano a malapena. Io sbircio le pagine dei quaderni più vicini, ma sono attimi troppo fugaci. Sonnecchio mentre gli ultimi ritardatari sfrecciano correndo. Li riconosco, sono sempre i soliti. Tra essi, il ragazzino che abita nella villetta a schiera alle mie spalle. Io lo ricordo da quando dormiva nel passeggino, accompagnato nei pomeriggi d’estate da volti più giovani e sorridenti. Anche lui mi riconosce, ne sono certo.

Il sole è alto quando giunge abbaiando la maggior parte dei quattro zampe. Grandi pastori tedeschi e piccoli volpini, peli corti o folte pellicce. Non posso dire che mi dispiacciano i cani. Anzi, vengono spesso a farmi il solletico ai piedi, con i loro umidi nasi intenti a cercare e a curiosare. Alcuni sono particolarmente affezionati a me, non passa giorno che non mi vengano a salutare; tra questi, i più cari sono quelli che non possono fare a meno di lasciarmi, diciamo, un ricordino. Potresti pensare che sia spiacevole per me, ma non è così. E’ il loro modo di farmi sentire loro amico, o di ringraziarmi per il mio fedele e costante lavoro quotidiano. Quanto ai padroni, apprezzano la sosta suggerita dai loro fedeli segugi, mentre siedono sulla mia vicina che mi fa compagnia da ormai molti anni. A lei va meno bene, ad essere sinceri, piena com’è di incisioni e scritte e segni di bruciatura perfino. Non si lamenta spesso, dice che le piace poter essere anche un contenitore di ricordi, sentimenti ed impressioni, forse fugaci in sé, ma fissate in questo modo per un tempo molto più lungo delle loro spesso brevi esistenze.

Quando il sole inizia a scendere apprezzo maggiormente il mio orario di lavoro, abbandonandomi ad un tranquillo riposo dopo il secondo passaggio dei ragazzi. Ascolto brandelli delle loro conversazioni: un’interrogazione saltata, un tema da scrivere, un incontro all’intervallo, i programmi per il pomeriggio.

Purtroppo è gennaio, e lentamente la nebbia, acquattata nel fiume, torna ad affacciarsi, timorosa, man mano che il sole si ritira. D’estate è tutto diverso, voci e grida e risate di bambini riecheggiano per tutto il pomeriggio intorno a me, fino a tarda sera. Ma non è ancora il momento. Potrai capirlo se tornerai a trovarmi tra qualche mese, io sarò qui. La luce invece cala presto ora. Ci si sente soli. Può succedere, alle volte, che qualche giovane coppia, sotto giacche pesanti o lunghi cappotti, sieda a scaldare la mia vicina, e che ai sussurri del fiume si mescolino parole dolci o frasi sommesse. Mi giungono fin lassù, ed io faccio finta di dormire ancora, o lancio uno sguardo fugace a colei che li sostiene, paziente e benevola come una balia, curva sotto il peso degli anni. Ma non ci piace origliare troppo.

Quando gli ultimi raggi del sole vengono inghiottiti, do un’occhiata ai miei colleghi. Con un cenno di intesa, brevissimo come una saetta, capiamo che è giunto il momento. Non di dormire, non per noi. Noi siamo gente notturna, come i tassisti o i baristi. A noi, la notte, tocca lavorare. Ma non credere che sia pesante, o noioso, o faticoso. In silenzio, aprendo i nostri grandi occhi, stendiamo una coperta dorata sul sentiero del parco, gettiamo petali luminosi sulle onde del canale. Non sono in molti, la notte, ad apprezzare lo spettacolo. Eppure, almeno io, sono certo che il gioco valga, e spero più d’una candela.

Il pallone, di Giorgia:

Luce. Il lucchetto del cesto che ci ingabbia viene finalmente aperto. Mani che ci abbracciano, ci toccano. Sento i tuoi palmi strofinare la mia ruvida superficie, la punta del tuo indice indugiare sulla valvola. E poi via insieme a percorrere il campo in un ritmico rimbalzo tra pavimento, mani e cesto.

Un fischio. E’ l’inizio della partita. Si sente la tensione, la tua presa è più forte, nel passarmi ad una compagna di squadra, sento le tue unghie graffiarmi e l’aria che mi sibila ai lati dimostra che la velocità di gioco aumenta. Per fortuna il pavimento è di legno, così il rimbalzo è più morbido. La retina del canestro è stata cambiata da poco e a volte mi trattiene un po’ fra le sue strette maglie prima di farmi ricadere a terra.

Il tempo scorre veloce tra pause, fischi, rimbalzi, canestri. Ad un tratto il silenzio assoluto avvolge la palestra. L’aria è ferma. Mi sento rigirare fra le tue mani sudate, poi mi posizioni sui polpastrelli, mi sollevi verso l’alto, frusti il polso e mi lasci roteare nell’aria immobile. Canestro. Vittoria. Urla, abbracci, lacrime. Ed io dimenticato al buio in un angolo della palestra. Ma so che domani tornerai a cercarmi, con tutta la passione che sai trasmettere.

Di Martina Due:

Sentivo la plastica del sacchetto celeste, spessa, dura. Sentivo il passo di Omar, regolare, deciso.
A un tratto si fermò. Mi appoggiò per terra senza nessuna delicatezza davanti al portone. Anche allora, per essere sicuri che si aprisse, serviva tirare un po’ la maniglia verso l’esterno proprio mentre si girava la chiave. Non lo hanno ancora aggiustato. Del resto ogni giorno che passa il palazzo è più malandato. Ogni cosa è sul punto di rompersi.
Mi sentii sollevare, poi cominciarono le scale. Sembravano non finire mai. Tutto arrotolato sbattevo sulle gambe di Omar ad ogni gradino. Piano dopo piano la temperatura aumentava. Incontrammo anziani che scendevano a fare la spesa, donne che chiacchieravano, bambini che giocavano. Non riconoscevo ancora le voci dei miei coinquilini e tutto mi appariva molto confuso.
Finalmente la porta si aprì. La luce accecante riusciva ad attraversare la plastica.
L’operazione più importante della mia vita durò un attimo. Omar tagliò l’estremità ancora fissata al palo di colui che mi aveva preceduto. Mi tolse dal sacchetto fissandomi con due reggette accanto a decine di altri. Sentivo una forte tensione, ma sapevo che presto mi sarei allentato.
Il cielo brillava in una perfezione azzurra. Raramente in questi mesi ho visto nubi. Di solito arrivano dal mare e rinfrescano la città. Non superano mai le montagne che la dividono dal deserto. Ma allora non avevo mai visto il cielo e quella vista mi sconvolse. La luce e il caldo mi trasmisero una tal euforia che avrei voluto alzarmi in volo.
Omar gettò il vecchio filo in un angolo. E’ ancora lì, nessuno si è dato pena di toglierlo, simbolo o monito della velocità con cui ti dimenticano non appena non servi più.
Si accese una sigaretta e guardò dritto davanti a lui: una distesa di tetti, fili colmi di panni, parabole, parabole e ancora parabole.
Sorrise al suo vecchio malandato quartiere. Lui, che da anni viveva in Italia, in una bassa palazzina immersa nel verde. Gli intonaci scrostati, gli infissi cadenti, tapparelle sempre aperte. E poi giù, la strada, dove sfrecciano taxi dai fumi neri accanto ai carretti straripanti di verdure trainati da stanchi cavalli.
Si appese con le mani su di me, senza tirare troppo, fingendo di dondolarsi.
Giocavano così da piccoli con Mohamed, Hussein, Amir. Le mamme continuavano a stendere, cantavano, ridevano e li sgridavano. Più per abitudine.
Dov’erano ora i suoi amici? Qualcuno in Italia, qualcun altro in Francia, solo Ibrahim viveva ancora lì. Si era sposato e aveva tre bambini. «Ci vediamo per la festa dell’agnello?» Certo, si sarebbero visti. Avrebbero sgozzato gli agnelli secondo la tradizione proprio quassù. Poi si sarebbe mangiato, da star male, tutti assieme.
Mi strinse forte. Controllò che reggessi. Mamma Fatma non gli avrebbe perdonato altre lenzuola a terra. Le lavava ancora a mano, con quelle mani nodose che preparavano il miglior cus-cus del mondo.
«Rimani qui» mi disse «Lasciati cullare da questo vento carico di sabbia, ma non farti mai portare lontano».

Esercizi sul “personaggio”.

Un rospo da sputare, di Cristina:

Ha sessantacinque anni e non è vecchio per l’età, ma perché va con le trentenni ridendo che sia amore.
Lo dice così, vantandosi come un adolescente, lo dice schiarendosi la voce, in pubblico e come se fosse tra intimi: “Sparo le ultime cartucce finché posso.”
In realtà non ci crede neppure lui alla passione tra un uomo vecchio e una giovane donna, quanto alla sua fede è venduta al denaro, il suo crocifisso è il portafoglio. Bestemmia, come mettere la punteggiatura sul discorso.
Parla male l’italiano e finge un imbarazzante accento di un generico nord-Italia, per nascondere il suo veneto sicuramente più dignitoso.
Pensa poco e, credo, in milanese, ma si sa, la dizione è una questione di studio, non di pensiero.
Ha studiato fino al primo giorno della prima media, al tempo detto Avviamento e adesso si fa chiamare Ingegnere, dando la responsabilità agli altri che lo vogliono così: dottore, scienziato, a volte anche luminare… per bocca sua.
E’ grasso, ha una pancia così grande che non può legarsi le scarpe, ma sembra sia riuscito a trovare, per qualche centinaio di euro almeno una donna disposta ad allacciargliele.
Ha un figlio piccolo, che forse ogni tanto si sbaglia e gli dice nonno.
Ama cenare fuori, comprare un’auto ogni sei mesi.
Fuma sessantacinque sigarette al giorno, praticamente respira tabacco. Quando sono al computer e scrivo, se lui si avvicina alle mie spalle per sbirciare nello schermo, il fischio del respiro affannato mi avverte della sua presenza ancor prima che arrivi.
Spesso abbiamo fumato insieme in giardino, con la schiena appoggiata al portone di casa, in silenzio, ma ora che io ho smesso e in casa sua si può fumare dappertutto non lo facciamo più.
Non ci viziamo più, ma d’altronde, è difficile concedersi vizi senza almeno una virtù con cui fare i conti: tutto irrimediabilmente scivola su una stessa china, deforme, maleodorante, come i suoi vestiti e la sua bocca con i denti marroni e vorrei chiedere alla sua ragazza se è poi così romantico baciare un posacenere.
Le madri però devono saper fare grossi sacrifici per i figli, forse tra questi è incluso anche sopportare gli aliti dei padri.
So che usa molto viagra, perché l’ha confidato ad un amico ed io ero nei paraggi e soprattutto perché conosco la vita sessuale dei trentenni, avendo io questa età.
Ma che razza di età è la sua?
Vicina alla pensione, in tempo per fare il nonno, per godersi quei quattro soldi guadagnati in una vita intera, con la moglie alle Maldive, oppure alle Canarie: posti caldi da raggiungere quando è freddo.
Invece lui si fa la tinta in testa, nera come quella di un corvo, e coi riflessi rossi che dicono ostentazione: tutto è troppo, troppo nero, troppo rosso , troppo vecchio, troppo viagra, troppo nonno- padre, troppi soldi da buttare.
Troppo!, troppo anche per me che sono sua figlia.